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venerdì 2 giugno 2017

Uno starnuto (Roman nouveau, 11)


Uno starnuto

Circa una settimana dopo aver trovato casa, mi sentivo finalmente tranquillo. Stavo per cominciare la mia nuova vita. Prima che cominciassero le lezioni avevo molte impellenze burocratiche da affrontare, perciò mi spostavo di continuo per la città, per ottenere il mio permesso di soggiorno e regolare tutte le questioni universitarie. Ma bighellonavo anche, provando un piacere delizioso nel percorrere le vie del centro cittadino. (Ovviamente il concetto di "centro" non ha molto senso, a Parigi, ma intendo i quartieri intorno all'Ile de la cité e lungo la Senna: il quartiere latino, Belleville, les Halles, il Marais, insomma tutti i primi arrondissements: quando mi spingevo oltre il mio decimo mi sembrava di andare in periferia).
Un mattino, stavo passando davanti alla Sorbona quando udii un potente starnuto alla mia destra e mi voltai. Lo starnutatore era Jacques Derrida. Fui subito certo che fosse lui e la certezza della sua apparizione mi lasciò stordito come da una botta: Derrida a un metro di distanza da me, Derrida al mio fianco! Derrida che starnutiva! La voce starnutente, il catarro, i germi di Derrida nel reale accanto a me.
Dubitai di me stesso, dei miei occhi e dell'apparizione quasi comica: forse era un'illusione, un abbaglio, poteva trattarsi di un signore qualsiasi vagamente somigliante al gran filosofo. Per qualche istante lo scrutai cercando di non farmene accorgere: era proprio lui. Aveva i capelli grigi di Derrida, la faccia e la giacca di Derrida. Si soffiò il naso in un bel fazzoletto di Derrida. Era Derrida, ne ero sicuro.
Che cosa ci faceva lì a un metro da me? Ma in efetti avrei piuttosto dovuto chiedermi che ci facevo io lì a Parigi a un metro da lui. A Parigi i grandi filosofi si potevano incontrare per strada! Ero circondato dai grandi filosofi contemporanei, come se fossero usciti dai loro libri per manifestarmi la loro autentica esistenza, redivivi Cristi del Sapere Assoluto incarnati di fronte a me, stupido incredulo santommaso.
Ero davanti alla Sorbona, dove dovevano andare i grandi filosofi se non nell'università più famosa al mondo? Ed eccomi lì a mia volta, non certo per diventare un grande filosofo mondiale – questo era da escludersi – ma almeno per respirare la stessa aria dei grandi filosofi, per vederli e ascoltarli, per parlare eventualmente con loro.
Derrida insomma era lì che si asciugava il naso col suo elegante fazzoletto di seta (non poteva essere fatto che di tale nobile tessuto).
Come si diceva "salute" in francese? A seconda del sistema culturale gli starnuti si trattano diversamente (in futuro avrei visto i miei amici francesi considerare barbara l'usanza, in effetti assurda, di mettersi la mano davanti alla bocca per ritrarla spruzzata del proprio muco). Che ne sapevo io se i francesi dicono “salute” quando uno sconosciuto starnutisce, come può accadere scherzosamente in Italia? E poi che senso aveva dire salute a Derrida? Avrebbe potuto pensare che io fossi un pazzo o uno scocciatore. Non avrei mai potuto dirgli in quella circostanza quanto lui fosse stato importante per la mia formazione, anche se adesso in effetti mi ero completamente allontanato da lui (salvo avvicinarmi geograficamente).
Già, questo era il vero problema: io con la sua filosofia non avevo più molto a che spartire, dunque, nonostante l'emozione per la sua presenza lì vicino a me, dovevo riconoscere che non c'era nulla da dirgli.
Derrida finì di tergersi il nobile viso, rimise in tasca il suo elegante pezzo di tessuto e riprese a camminare sul marciapiede di boulevard Saint Michel davanti alla Sorbona. Lo persi di vista. Era una chiarissima allegoria del mio rapporto con lui: la sua filosofia mi era esplosa in mezzo agli studi come un'epifania, come un boato, ma io non avevo un granché da ricavarne, poi lui era andato avanti e io non ero più riuscito a seguirlo. Del resto, a Parigi ero venuto per studiare Deleuze con Badiou...
Addio Derrida, tra noi probabilmente è finita. A tes souhaits, Jackie!